04/10/2024
La violenza è l’antitesi di ogni forma di educazione.
Io dico no a ogni forma di revisionismo.
In questo articolo metto sotto osservazione la credenza di alcuni addestratori che ricorrono alle punizioni corporali sul cane, attraverso l’utilizzo di strumenti che possono provocare dolore e sofferenza, rappresentati da questi come il "mezzo necessario per educare il cane".
La punizione vista come valore assoluto e l'unico efficace per assoggettare il cane al volere del padrone.
In questa visione il cane è visto e vissuto come essere inferiore e potenzialmente pericoloso, un lupo urbano feroce che necessita di essere inibito a priori e con qualunque mezzo all’autorità di un umano, per renderlo così mansueto e giustificando de facto che vale qualunque mezzo finalizzato ad ottenere la disciplina, e se ritenuto necessario ben venga l’uso della forza fisica.
Questo passaggio che ho appena descritto purtroppo è un equivoco che affonda le proprie radici in tempi remoti e ancor oggi certe tecniche faticano a essere accantonate anche se in una società civile e con quanto ci dice la scienza etologica di certe brutalità non dovrebbe restarne quasi più memoria.
Il pensiero che sostiene la necessità della “violenza educativa” sul cane è un tema tanto delicato quanto, purtroppo, ancora tristemente attuale in cinofilia, poiché ancora presente in alcune frange nel nostro costume cinofilo, minoranze che si nutrono ancora dell’idea che sia sufficiente rendere il cane un oggetto da lavorare per renderlo ubbidiente e sottomesso al padrone.
Purtroppo anche le nostre fonti normative sono pigre nel prendere posizione sul concetto di punizioni inferte agli animali: accettando l’uso di forme di violenza modica, quella per intenderci che crea solo forme di sofferenza, valutabili ad esempio con condotte non eccessivamente lesive per il cane. Come a dire non si ravvisano riscontri radiologici con fratture o lesioni, il cane non ha subito alcun danno. Come se l’unico dolore sia quello osservabile con un indagine strumentale da ortopedia o organi interni spappolati.
Purtroppo credo non sia sufficiente creare solo movimenti di moralizzazione su facebook, perché alcune condotte addestrative vengano impedite in nome di un cambiamento etico apprezzabile nella nostra cultura.
Come scrisse Umberto Eco, facebook da spazio di parola ai peggiori ciarlatani, se poi questi hanno "capacità social" rischiano di apparire pure competenti, come a dire se ha tanti likes allora ha ragione.
(Chi ha più likes non è sempre il migliore, vi ricorda qualcosa una certa coppia molto social tra panettoni ecc.?)
Non funziona così, il modo di fare likes e avere followers sui social spesso non è legato alle competenze reali, ma il più delle volte a strategie di rete e di social commerce.
Per queste ragioni sembra che i social con la loro polarizzazione a suon di ricerca di likes siano il terreno quasi solo di scontro tra fazioni con intenti simili, quello di acchiappare follower e clienti, ciò ci mette di fronte ad evidenze di discussioni molto estremizzate:
- Conviventi umani di cani che continuano a essere schiavi di una concezione che considera il rapporto padrone/cane non come relazione famigliare multispecie, ma di ammaestratori di fiere carnivore pronte a uccidere se non controllate.
E con questo non parlo che non senta anche io la necessità di assumermi il ruolo autorevole di umano con un cane, comunque non solo necessario, ma indispensabile per una serena convivenza, sia all’interno della famiglia, sia nelle nostre città.
- Metto tuttavia sotto critica l’idea che ritengo obsoleta, brutale e arrogante dell’umano, che si arroga il diritto di vivere il cane, utilizzando tecniche discutibili in nome di una presunta e non veritiera necessità di imporre una forma gerarchia lineare sul suo animale, fondata attraverso la paura che deve provare il cane in quanto sottoposto e pertanto osservato come quello solo potenzialmente pericoloso o assassino e come tale controllato con ogni mezzo dai suoi padroni che devono confinarlo al ruolo del più debole a qualunque costo, con qualunque metodo e in ogni frangente, e ribadirlo con tecniche punitive in ogni momento del giorno e della vita dell’animale.
Non voglio essere frainteso, non dedico il mio lavoro al disimpegno educativo e non penso sia possibile neppure una relazione alla “pari” con il cane. Non ritengo possibile avere il cane libero di fare la qualunque e senza guinzaglio nelle nostre città. Non apprezzo chi sostiene anarchicamente di lasciare in autonomia a se stesso il cane in un ambiente fortemente antropico dove viviamo e che per questa ragione invece ci richiede attenzione e cura relazionale e impegno nei confronti del nostro famigliare non umano, il cane.
Non inneggio neppure alla diffusa “moda” di trattare i cani come “amici di avventura”, ciò che affermo, piuttosto, è che i cani nostri conviventi non possono in nessun caso essere considerati oggetto di un potere e di autorità dell’umano, quanto, semmai, individui non umani, meritevoli di rispetto, di trattamenti socievoli e, soprattutto, della massima cura.
Credo che nella violenza non può esserci amore, né cura, né rispetto, né relazione e piacevolezza di stare con un cane e viceversa per il cane.
La violenza è l’antitesi di ogni forma di educazione e di rispetto per il cane, sempre e qualunque sia la forza o il motivo che induce a perpetrarla non può essere mai autorizzata e neppure giustificata.
In questa materia il mezzo non giustifica e non può mai giustificare il fine: è una bestialità pensare che l’uso della violenza sia giustificato dal fine di addestrare un cane per renderlo semplicemente sottomesso e inibito al ns. autoritario volere.
Questo mio articolo è un pensiero elaborato da un seminario dal titolo Con-Tatto che realizzo con mia figlia, Sarah Miconi .
Attilio Miconi