05/01/2025
Ieri pomeriggio, mentre rientrava nel pollaio correndo dietro alla sua insalata come ogni giorno, Bia, gallina broiler di poco più di 5 mesi, è morta.
Si è accasciata all’improvviso davanti a noi, si è scaricata a terra come un fulmine che colpisce il suolo e i nostri occhi sconvolti.
Dissolta come un prodotto tenuto in dispensa troppo oltre la data di scadenza.
Perché un pollo broiler è proprio questo, un animale a cui è tolto tutto tranne che l’esasperazione del suo corpo gigante, che è stato creato per scadere, per non poter avere la vita tra le sue dotazioni, un corpo che è un destino di sola carne.
Eppure Bia assieme agli altri suoi compagni liberati, la vita la esprimeva eccome.
Ha goduto di tutto, della verdura fresca e della frutta golosa, della compagnia di altre galline, galli, capre e cani, ha becchettato la terra in un grande spazio, ha litigato e fatto l’amore col gallo più bello, ha corso col suo corpo basso a forma di comodino, ha riposato tra la paglia fresca, al sole tenue d’inverno, si è scaldata tra le piume di altri pennuti, ha vissuto ogni grado di quel fondo dell’esistenza che nessuna manipolazione strumentale poteva toglierle.
E forse è proprio per quello che ci siamo rimasti così male.
Perché pur sapendo, vedere questa vita così fiorente ci ha fatto illudere che potesse cancellare la prigione del suo corpo nato solo per morire.
Perché la vita quando si esprime è potente, ed è totale. Perché spesso trova le sue strade anche in mezzo al deserto, scivola dolce tra la pioggia, rischiara dove è passata la tormenta.
Ma la sua morte ci ha rischiarato anche la rabbia, per questi animali messi al mondo così irrimediabilmente segnati da un’industria che crea volutamente malattia e sofferenza, che gioca con i corpi come fossero macchine, che se potesse toglierebbe loro anche il respiro ed il movimento pur di risparmiare elementi superflui alla produzione.
Tutto ciò che per questo sistema produttivo era trascurabile, era Bia.
Bia intera, Bia che corre verso la sua insalata ogni giorno e per l’ultima volta.
La sua liberazione è una storia importante non solo per lei e per i suoi 4 compagni rimasti, ma anche perché ci mostra uno squarcio di luce plumbea sulla realtà degli animali allevati per essere cibo, degli animali resi soltanto membra in attesa di essere consumate, nella velocità e quantità incontenibile propria della ragione del Capitale.
E un rifugio non ha il compito di affannarsi a risolvere i problemi strutturali creati dal sistema zootecnico, dalla sua scienza al servizio non dello sviluppo della vita, ma di quello del Capitale.
Un rifugio deve cercare di ti**re fuori da quel fondo comune intoccabile il senso specifico per ciascuno di questi individui, e attraverso le loro storie tenere presente che la lotta non si potrà dare chiudendosi in questi spazi fondamentali di restituzione e di cura, ma va portata fuori traendo la forza dalle loro storie, dalle loro gioie e dai loro dolori, per gettare lontano il cuore e la rabbia, ben oltre il senso che abbiamo faticosamente costruito, ben oltre l'ostacolo che ci schiaccia a terra enorme come i petti di questi polli.