04/12/2022
Eravamo una decina di persone quel giorno, sul campo d’addestramento. Io ero l’assistente dell’addestratore, il capo. Gli altri avevano portato i loro cani per addestrarli. Si lavorava con un cane alla volta. Gli altri aspettavano in macchina o al guinzaglio.
L’addestratore mostrava come mettere seduto, a terra, al piede i cani. Motivava con un “salamotto”, la preda data come gratificazione finale al cane.
Correggeva e imponeva posizioni con strattoni e ordini perentori. Se il cane non obbediva, veniva punito. Se si ribellava, ci si andava giù ancora più pesante.
L’addestratore spiegava, urlava, faceva battute. L’intento era creare un’attitudine militare. Uno obbedisce, gli altri eseguono. Dovevamo essere tutti d’un pezzo. Senza debolezze, pronti a ordinare, motivare, punire.
Quel giorno però accadde qualcosa che moltiplicò i dubbi che avevo in testa. Dubbi che non potevo esternare pena essere ridicolizzato per le mie idee.
Mentre eravamo intenti a lavorare, uno dei cani dell’addestratore abbaiava e saltava, cercando di affacciarsi dalla parete di legno, alta circa due metri, che separava il suo box dalla recinzione del campo. Non poteva vederci, ma ci sentiva. Voleva uscire. Aveva un fare eccitato e non ce la faceva più a rimanere lì dentro. In quel box, lui, ci viveva e poteva uscire in tarda mattinata e alla sera. Quando il campo era vuoto e l’addestratore aveva un po’ di tempo per lui, un pastore tedesco di circa un anno, piuttosto fuori dagli standard di bellezza e per questo ritenuto un cane di serie B.
Continuava ad abbaiare, uggiolare, saltare. I suoi vocalizzi e il suo comportamento urlavano forte: “fatemi uscire di qui”, “ascoltatemi, vi prego”, “voglio stare lì con voi”. Ma questo non fece che irritare l’addestratore, che a un certo punto, lasciò quello che stava facendo senza dire una parola, procedette a grandi passi verso la porta del campo, uscì e face il giro, raggiungendo il box del cane.
L’animale non fece che rinvigorire i suoi vocalizzi, elettrizzato perché finalmente il suo compagno umano si era accorto di lui. Fino a quando tutti sentimmo il tonfo degli stivali di gomma dell’addestratore contro il torace del cane. A quel punto i vocalizzi erano diventati uggiolii, urla di dolore. Ma ancora un calcio. Poi un’altro. E un altro ancora, accompagnato da bestemmie.
Rimanemmo tutti in silenzio. Mi guardai attorno e sul volto di uno di quei veri uomini frequentatori del campo, lessi un ghigno. Era come se dicesse: ben fatto, se lo meritava.
Uscito dal box l’addestratore tornò in campo. Il gesto era stato violento ma, ai suoi occhi, giustificato: il cane, adesso, era in silenzio.
Nella sua approssimativa teoria del capobranco, il cane lo aveva sfidato, mentre, lui con quell’atto rabbioso, gli aveva fatto capire chi comanda e il cane aveva accettato di sottomettersi a lui.
Diceva bene Abram Maslow: se il solo strumento che possedete è un martello, vedrete in ogni problema un chiodo.
Se l’unica cosa che sai fare è usare violenza e se l’unica dinamica che conosci è quella di dominante-sottomesso, ogni comportamento indesiderato di un cane ti sembrerà una sfida e l’unico modo di intervenire che conoscerai sarà fargli male o minacciarlo.
Quel cane preso a calci manifestava il bisogno radicale di stare in gruppo, muovere il corpo, cooperare, esercitare le proprie capacità, giocare. Il suo comportamento non era l’espressione di un carattere dominante, ma il risultato di necessità irrinunciabili e, allo stesso tempo, negate.
Non un’idea così raffazzonata dell’etologia del cane avrebbe potuto salvarlo da una vita così misera, ma la capacità fondamentale del suo compagno umano, di mettersi nei suoi panni e capire. O, detto altrimenti, guardare il mondo dalla sua prospettiva.